Cos’è il permafrost? Dalla parola stessa deriva la traduzione “perennemente gelato”.
Il termine permafrost è stato introdotto da Muller (1947) per definire “un qualsiasi terreno che rimane congelato per più di un anno”.Più di recente Brown e Pewè (1973) hanno definito permafrost “qualsiasi terreno che rimane al di sotto della temperatura di 0 °C per più di due anni consecutivi”. Questo significa che il permafrost può contenere ghiaccio oppure può essere asciutto o anche che può contenere acqua liquida conseguentemente ad un punto di congelamento dell’acqua più basso. Inoltre può essere permafrost sia un ammasso roccioso sia un terreno sciolto e la percentuale di eventuale ghiaccio può variare notevolmente (Ferrario, 2007).
Il permafrost è presente prevalentemente nelle aree artiche ma è distribuito anche in molti contesti sub-artici e montani (un esempio possono essere alcuni rock glacier con ghiaccio interstiziale). Una superficie terreste molto ampia e ben distribuita.
Il clima è senz’altro il fattore che determina maggiormente la formazione dello strato gelato e nei settori artici è possibile studiare il profilo di temperatura delle zone a permafrost per capire come esso si distribuisce all’interno del regolite (ovvero il suolo fatto di materiale eterogeneo, a spessori differenti, che ricopre la roccia madre).
Qui (nell’artico) l’analisi in profondità può essere espressa da un diagramma come da immagine:
In questa sezione verticale si evince uno strato più superficiale denominato “Strato Attivo” nel quale l’ambiente subisce maggiormente delle variazioni climatiche stagionali ed oscilla tra +0°/-0°; proseguendo verso il basso si arriva ad una condizione di stabilità dove si riscontra sempre il permafrost sino ad un punto in cui cessa l’influenza della variabilità termica.
Cosa sta accadendo durante questa fase prolungata di cambiamenti climatici?
Fatta la doverosa premessa di trovarci in uno stadio infraglaciale caldo (il riscaldamento è contemplato dalla Natura), si registra l’anomala accelerazione di processi storicamente più lenti e graduali. Tra questi la variabilità annuale del Permafrost.
L’innalzamento globale delle temperature condiziona fortemente lo spessore di quello strato attivo citato nel diagramma a discapito del sottostante permafrost perenne.
Il permafrost non si è formato nell’ultimo secolo bensì è un processo geologico che interessa la stratificazione verticale dei vari livelli del suolo (definiti in pedogenesi “orizzonti”). Dunque al suo interno si trova una incredibile quantità di materiale organico non decomposto o parzialmente decomposto al pari dei nostri alimenti nel freezer.
Una bomba di carbonio sepolta! Naturalmente non verrebbe rilasciato in un sol colpo ma dobbiamo sapere che vi è intrappolata uno stock enorme in parte rilasciato come carbonio, in parte elaborato dagli organismi e diffuso come C02 e metano.
Oltre all’aspetto prettamente climatico viaggia contemporaneamente il fattore ambientale legato alla trasformazione del suolo.
Lo scioglimento del permafrost e la maggior variabilità dello strato attivo produce continui rimaneggiamenti dell’orizzonte superficiale, con dissesti di varia natura classificati come “termocarsismo” : crolli improvvisi di tipo sinkhole, smottamenti, eventi franosi (immaginiamo l’assenza del collante su aree montane/inclinate), formazione di torbiere, laghi e ristagni, perdita di area forestale (è noto il fenomeno della “foresta ubriaca”, ovvero degli alberi con radicali poco sviluppati e/o su suolo instabile quale il permafrost. E’ un aspetto fisiologico delle aree artiche ma deve restare confinato solo su determinate zone di transizione climatica, senza intaccare la taiga).
E si potrebbe continuare parlando di mercurio ed agenti patogeni.
Un quadro certamente preoccupante.